La vendita del vino e dell'olio


A Pozzallo era consuetudine tramandare da padre in figlio " 'n pièzzu rì vìgna", ubicato in genere dalle parti di Santa Maria del Focallo, della Marza e del Telegrafo, considerate da sempre zone produttrici di buone uve da mosto: per il vino quindi non c'erano problemi particolari, dato che in molte famiglie si beveva esclusivamente quello "di casa".
" 'A vignìgna" - preparata anzitempo con una ritualità tutta particolare - aveva luogo intorno al 13 settembre, quando i "palummènta" del Focallo erano già stati riattivati e messi a disposizione dei viticultori. Era questo un vero spettacolo, ricco di movimento, di azione, di gesti rapidi, di vivacità, grazie all'animazione instancabile di uomini esperti che pigiavano con vigore e a piedi nudi l'uva portata dai privati, già immessa nelle grandi vasche di cemento di cui questi locali erano dotati: e non mancavano certo i curiosi che, sempre più numerosi e con grande interesse, seguivano meravigliati questo insolito lavoro esclusivamente stagionale, soprattutto unico nel suo genere.
Perfino l'aria che in quei giorni si respirava nelle vie era impregnata dell'odore particolare del mosto, lasciato dal transito dei carri pieni di "òtri" ondeggianti per il loro contenuto liquido, logorati dal lungo uso, la cui pelle ne aveva alfine assunto anche il colore.
Purtroppo, il suo odore così intenso attirava le mosche in casa e fuori al punto di dover ricorrere ad una sempre più frequente disinfestazione, aiutati spesso dalle provvidenziali prime piogge stagionali: problema comunque che oggi non si pone neppure, grazie alla costante pulizia di vie, piazze e giardini, operata dal servizio ecologico a disposizione dell'Amministrazione Comunale.
" 'A rispenza", " 'a ùtti ri famìgghia" e " 'a vinnùta rò vinu"
Una volta a destinazione, il mosto veniva versato "ntè ùtti" già approntate "ntà rispenza", ricavata a piano terra, in un vano rustico adibito di solito a "carretterìa" e facilmente accessibile dalla strada. Le fasi di fermentazione erano sempre seguite con estrema attenzione dagli interessati, speranzosi di poter ottenere ancora una volta la gradazione desiderata, senza mai trascurare peraltro il controllo "rà ùtti ri famigghia", contenete - com'è facile intuire - il vino per le necessità proprie e della parentela.
Quello in eccedenza era destinato invece alla vendita per l'occasione, ai vecchi clienti e agli amici venivano fatti recapitare degli "assaggi", invitandoli ad approvvigionarsi in tempo: era proprio il 'via' che molti attendevano e, data appunto la quantità limitata a disposizione, cominciava allora un interminabile andirivieni di persone, con damigiane e bottiglioni, mantenendo un ritmo costante almeno per un paio di settimane.
Dopo, non restava che rivolgersi alle poche "putìe rì vinu" esistenti in paese e riconoscibili dal ramoscello "r'addàuru" appeso alla porta: andarci però era incombenza prettamente maschile e mai femminile, cosa questa ritenuta oltremodo disdicevole. Infatti, soprattutto verso sera, questi locali erano frequentati da una clientela in genere rumorosa che, dopo il lavoro, desiderava chiudere la giornata in allegria, fra una giocata a carte e un bicchiere di vino.
"Mùstu", "mustàta" e "vinu cuòttu"
Una vecchia consuetudine vuole che, dopo la vendemmia, i piccoli produttori mandino a parenti ed amici alcune bottiglie "ri mùstu" con il quale preparano in famiglia gustose ricette tramandate da madre in figlia e pervenute a noi soltanto con lievi modifiche, limitate peraltro unicamente alla maniera di addolcirlo. Comunque, l'estro delle nostre nonne era tale che - grazie ad un sapiente gioco d'ingredienti e dosi - era riuscito a variare in meglio una ricetta, raggiungendo sempre dei risultati apprezzabili ed a volte eccellenti.
Specialità prima ed assoluta continua ad essere " 'a mustàta", tipica crema settembrina ottenuta con mosto e farina, che si può anche consumare subito: in genere, e allo scopo di permetterne la lunga conservazione, si lascia però asciugare al sole, utilizzando degli appositi "stampini" di terracotta che si trovano ancora in molte case da generazioni. Fra l'altro, le forme di "mustàta" non mancavano mai fra i regali "portati" ai bambini in occasione della "Festa dei Morti", la cui usanza continua a resistere ancora oggi.
Un'altra specialità a base di mosto sono i "llullarièddi", anche questi con tante variazioni al tema, conditi con mandorle tritate, crude o tostate, da gustare a mo' di budino.
Tuttavia, fra le specialità settembrine, un posto speciale spetta soprattutto " 'o vinu cuòttu", ottenuto col mosto già addolcito e reso cremoso da una lunga cottura, che viene impiegato soprattutto nella preparazione di altri dolci: come, "rè mustazzola", biscotti di pasta compatta, dal sapore gradevole, e "rà cumpàita", torroncino con i semi di sesamo che non può mancare nel menù natalizio delle famiglie del modicano. E non solo: perché versato sulla ricotta fresca, la rende simile ad un dolce delicato e piacevole, mentre quello di inzupparvi il pane resta ancora un "pitìttu" - capace di stuzzicare a ragione il palato di piccoli e grandi.
La vendita diretta dell'olio
Per l'olio vale quanto scritto per il vino, dato che molti pozzallesi - oltre alla "lenza" di vigna - disponevano di piccoli appezzamenti di terra con alberi di ulivo, bastanti a produrre l'olio per le loro necessità annuali e per quelle della parentela.
E' superfluo aggiungere che la buona qualità e la giusta acidità ne rendono il gusto bene accetto al palato dei più: le eccedenze, anche in questo caso e ad equo prezzo, servivano poi per le provviste degli amici. Da ricordare, fra l'altro, che l'olio non era venduto a "litro" o a "chilo" - come d'altronde non lo è tutt'ora - bensì a "cafisu" o a "miènzu cafisu", antiche unità di misura in uso ancora nelle nostre parti.
Si aggiunge inoltre che, al tempo della "cutuliàta" e della spremitura, era normale fare provviste di olive nere e verdi da mettere in salamoia, sotto sale, sott'olio o in forno, da conservare per l'inverno imminente: le più polpose erano destinate invece ad essere schiacciate, snocciolate e condite anche con peperoncino, per diventare contorno stuzzicante o ingrediente piccante di una "stimpiràta" come quelle preparate dalle nostre nonne, "pitittu" al quale certi buongustai non sapevano né volevano rinunciare del tutto.
Solo "putìe" e supermercati
Non si è accennato fin qui agli ambulanti del settore perché in passato non esistevano proprio: il trasporto dei liquidi creava infatti non poche difficoltà, anche se - nell'immediato dopoguerra - si era pensato di risolverle cercando di 'adattare' dei furgoni per il commercio 'mobile' al quale dovevano servire, senza peraltro riuscirci.
Alla popolazione non restava altro che ricorrere "all'uògghiu ri casa", fornito dai soliti vicini o dai produttori amici, anche se il favore della gente cominciava ad orientarsi vieppiù verso le "putìe", nel frattempo modernamente ristrutturate per dare maggiore visibilità alla propria attività commerciale: fra l'altro, in questi ultimi tempi, l'apertura di altri negozi e l'arrivo dei supermercati, hanno contribuito in maniera determinante a cambiare la dinamica delle vendite, offrendo sempre più alla clientela un'ampia possibilità di scelta fra centinaia di bottiglie, affiancate le une alle altre e nelle cui etichette - variamente colorate - è possibile conoscere la relativa acidità e trovare tutti i dati utili, luogo di produzione compreso.
Così è divenuto tutto più semplice, anche se a discapito certamente di una genuinità alla quale i nostri nonni erano abituati da tempo immemorabile: allora bastava versare un po' d'olio su una fetta di pane "scarfàtu" o l'assaggio di un bicchiere di vino novello per stabilirne la qualità e dare subito il via alle provviste annuali.
I tempi sono però cambiati e bisogna sapersi adeguare per affrontarli meglio: come per i 'furgoni' di cui sopra, risultati inutili o riciclati, meglio adatti alla vendita di legumi, olive, capperi, farina, formaggio e latticini in genere.