Storia e Territorio

La vendita del latte, della ricotta e del formaggio

autore Angelo Cintoli 14 October 2021
Cavagne

La vendita del latte

E il latte? Erano delle scene bucoliche che sono rimaste nella memoria dei più anziani a testimonianza di un passato sempre più lontano. 

Come si è accennato nella parte introduttiva, i "caprari" scendevano in paese tutti i giorni: ne percorrevano a piedi le vie, preceduti sempre da mucche e capre ed erano annunziati non solo da mùggiti e da bèlati, ma anche dal suono dei campanacci appesi al collo degli animali. All'avvicinarsi di questi suoni mattutini, puntuali come lo scandire di un'ora kantiana, le donne si affacciavano alla porta porgendo la classica "pignatedda" nella quale veniva munto il latte, chiedendo a volte di provvedervi loro stesse, se non altro perché erano sicure di avere le mani pulite ma, soprattutto, per evitare la schiuma che il "capraru" riusciva a far venire su per aumentarne il volume. Così, senza passaggi intermedi, con lo stesso pentolino si provvedeva alla bollitura: insomma, dal produttore al consumatore.

Fu soltanto verso la fine degli anni Quaranta - su disposizione del Sindaco - che i pastori cominciarono a portare con sé dei recipienti di latta o zinco, con beccuccio, lasciando finalmente gli animali liberi nel loro habitat naturale: per misurare il latte venivano tuttavia usate delle brocchettine dello stesso metallo, da uno o da mezzo litro, che solo in seguito furono sostituite da bottiglie in vetro trasparente, a bocca larga, dello stesso tipo di quelle usate fino a qualche tempo fa dalle Centrali del latte. Venivano però utilizzate come unità di misura, perché la gente continuava ancora a preferire la misurazione a vista, sotto il controllo diretto delle interessate. 

Tutto questo perché, dalle nostre parti, la figura del "lattaio" - intesa nel senso moderno della parola - non esisteva proprio: bisognerà attendere il dopoguerra per avere le prime latterie, la cui vita è stata per altro molto breve, tanto da essere oggi quasi scomparse. Al loro posto, nei supermercati, esistono degli appositi reparti, dove è possibile trovare sempre latte fresco, intero semi magro, scremato, pastorizzato e a lunga conservazione, inscatolato ed ermeticamente sigillato in tetra-brik, a totale garanzia d'igiene. 

 

La vendita della ricotta. Le "cavagne"

Per la ricotta fresca passavano invece altri pastori - con delle "bisacce" appese a tracolla o al braccio - che avevano però una maniera di "vanniari" completamente diversa dagli altri ambulanti. Non dicevano infatti: "àgghiu ricòtti" ma "ni vùliti ricòtti?", "cu vòli ricòtti?", ponendo cioè delle domande, come se da queste attendesero soltanto delle risposte.

A questo punto l'uso del plurale è giustificato dal fatto che la ricotta era venduta nelle "cavagne", particolari "fiscelle" strette e lunghe, fatte con liste di canna legate fra loro che consentivano la fuoriuscita del siero attraverso gli interspazi. Di conseguenza, pesando ogni ricotta 100-150 grammi, era facile stabilire il numero di cavagne occorrente per arrivare alla quantità desiderata, legittimando così l'uso del plurale ricotte.

Si fa notare infine l'eccezionale abilità del ricottaio nel farle scivolare nel piatto della cliente, affiancandole l'una all'altra come in una bella esposizione. Si trattava senza dubbio di un'operazione che aveva sempre bisogno del classico colpettino finale, indispensabile per far schizzare le punte, il più delle volte restìe a venir fuori: unite poi al tronco, ne completavano la caratteristica forma, con una estremità a punta.

Purtroppo, in questi ultimi anni, le cavagne sono scomparse o quasi: se ne trovano sempre meno e, col tempo, sono destinate a restare soltanto nel ricordo di ciascuno. D'altronde, il loro posto è preso oggi dalla "vascedda" che, mutando la tradizionale forma allungata, ha fatto assumere alla ricotta quella rotonda della caciottina: quindi non è più venduta a numero ma a peso, usando per giunta il singolare, nel rispetto assoluto della grammatica, che poteva soffrire di questa anomalia. 

Bisogna casomai aggiungere che della "cavagna" se ne fa oggi uun uso improrio: seguendo la moda del momento, queste sono infatti entrate nelle case di città e nelle ville di campagna come ornamento rustico e, soprattutto, come cimelio di tempi legati ancora alla nostra memoria, alle generazioni passate e al folclore della nostra gente. 

Immagine rimossa.

 

" 'A mangiata ri ricotta"

A questo punto non si può fare a meno di parlare della "mangiata 'i ricotta càura", fatta da gitanti giovani e meno giovani che, nei giorni di vacanza, si davano appuntamento all'alba, certi di trascorrere una giornata diversa: tutti insieme, a piedi o con i carretti, cantando o chiacchierando a voce alta, raggiungevano le "masserie" nelle vicinanze per gustare, fra l'altro, specialità casearie come la "tuma", la "quagghiata" e, perché no, la "lacciata", il cui effetto lassativo era quasi immediato. 

Il "clou" della gita resta tuttavia " 'a ricotta càura": ancora fumante, viene versata in una capùta dove è stato già stato sminuzzato del pane raffermo sul quale, per renderlo più morbido viene aggiunto del "siero". Dopo una buona rimescolata, comincia infine il rito della "mangiata" vera e propria, che avviene stando in piedi, appoggiati ad un muro a secco o al tronco di un albero o seduti a circolo su grosse pietre, commentando ogni cosa e, fra i mille discorsi che si intrecciano e si accavallano, lasciando sempre affiorare un costante sottofondo di allegria.

Questi incontri conviviali - quanto mai vivaci - non sono soltanto legati al passato ma continuano ancora oggi: anzi, da qualche anno, sempre all'insegna del buonumore, si ripetono anche d'estate, quando i gruppi si ricostituiscono e si infoltiscono con l'arrivo dei vacanzieri. Senza dire che una così gradevole "rimpatriata" - seppur nella sua brevità - riesce quasi sempre a liberare la mente da crucci e problemi, che ad ogni piè sospinto la via riserva purtroppo ai miseri mortali.

Tuttavia, oggii, sempre più spesso, i "massari" usano mettere a disposizioni degli ospiti ocasionali una stanza con tavoli e sedie, offrendo olive, formaggio fresco, pomodori salati, pane casalingo e buon vino: non bisogna comunque mai dimenticare che la tanto desiderata "mangiata 'i ricotta" "addubba" a tal punto che il più delle volte non si riesce proprio a finirla, con grande festa dei cani che scodinzolano intorno.

Per i bambini poi è una novità in tutti i sensi, abbondando gli spazi per rincorrersi e divertirsi, incuriositi dalle cose di campagna ed in particolare dalla "mànnira", dove è possibile osservare gli animali spesso con i loro "lattanti", ai quali lanciano teneri sguardi.

La "scampagnata" accontenta così piccoli e grandi e termina in allegria, non senza aver rinnovato l'impegno di ritrovarsi ancora, sempre all'insegna dell'amicizia che qui, da noi, ha valore di affetto fraterno.

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La vendita del formaggio, delle uova e del pollame

Nel loro "giro" quotidiano, i "ricottai" portavano spesso con sè " 'u frummagghi", tipico cacio dalla forma rotonda, fatto con latte bovino o caprino e venduto fresco, stagionato o col pepe: e no solo, ma avevano anche "pruvuleddi" e "cosacavaddu", la cui preparazione però richiede una diversa e più lunga elaborazione.

Di frequente passavano inoltre altri pastori o contadini - o gli stessi ricottai - che richiamavano l'attenzione della gente a gran voce: "cu vòli òva frìschi?" o dicendo semplicemente: "àgghiu jaddùzza e jaddìni", che tenevano legati per le zampe, essendo questa l'unica maniera per appenderli al braccio o alle spalle a guisa di bisaccia. Non badavano certo alla loro sofferenza, resa molto evidente dal movimento scomposto delle ali, a causa della scomoda posizione in cui erano costretti a stare. Dopo - anche se per pochi giorni - venivano lasciati razzolare " 'nto scupièrtu", nell'attesa di rallegrare la tavola imbandita della domenica successiva: un tempo, per chi non poteva allevarlo in casa o in campagna, mangiare pollame era infatti considerato un lusso e - al contrario di oggi - la gente ricorreva sempre più spesso a cibi meno costosi, come pasta, pesce, verdura, legumi e formaggio. E, soprattutto, al pane " ccò cumpanàgghiu" o addirittura "schìttu".

La carne, infatti, non abbondava, come vedremo nel capitolo seguente.

 

Testo tratto dal libro di Luigi Rogasi - "Pozzallo. Echi del passato e voci del presente" - Firenze 1990.

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